lunedì 31 luglio 2023

Enrico Rava Unissued feat. Randy Kaye 5et _ Brooklyn 1967, May 24

 

RA: La storia del recupero del tempo perduto, della ricerca degli inediti, come ha fatto con Massimo Urbani o con la collana dedicata a Charlie Parker per esempio, è un altro aspetto caratteristico della Philology. Anche nel tuo caso Piangiarelli ha scovato un nastro con Randy Kaye, un’incisione realizzata a Brooklyn nel 1967, offrendoci un altro tassello mancante nella tua discografia. 

Enrico Rava: Si, è vero, è un aspetto peculiare questo e chissà come ha recuperato quella vecchia registrazione. Era il luglio del ’67, provavamo nella Lower East Side, dalle parti di Tompkins Square con Randy Kaye, che anni dopo sarebbe diventato il batterista di Jimmy Giuffre. Al piano c’era un ragazzo londinese, Peter Lemer, al basso Steve Tintweiss e al sax tenore Joel Peskin, un musicista eccezionale per il quale prevedevo un grande futuro nel jazz e che invece è finito a fare il turnista, di alto livello, in California. In quei giorni a casa mia c’era Aldo Romano, a NY per registrare con i fratelli Kuhn e con loro suonava anche Jimmy Garrison, ed era lui che ci teneva al corrente sulla salute di Coltrane che stava molto male. Quel giorno le prove con Randy procedevano benissimo anche se il mio stile, all’epoca molto avant-garde, ogni tanto cozzava con il resto del gruppo più orientato verso la tradizione. Eravamo comunque contenti di suonare insieme e i ragazzi mi venivano dietro anche perché ero quello con più esperienza grazie alla mia militanza con Steve Lacy e Roswell Rudd ma si stava facendo tardi per cui telefono a casa per avvisare di non aspettarmi. Mi risponde Aldo. È in lacrime. Riesce appena a dirmi “è morto”… al funerale di Coltrane suonò Albert Ayler. Tantissima gente. Non riuscii ad entrare. Molte lacrime. Una cappa di dolore…



RA: immagino… tornando a Piangiarelli, credo che sul suo essere collezionista ed “archivista” se ne potrebbe scrivere molto…

ER: Ma difatti, a parte che faccio il musicista, io sono un appassionato di Musica in generale e di Jazz in particolare, e quando avevo il desiderio personale, o anche il bisogno professionale, di ascoltare qualcosa d’introvabile, ogni tanto gli chiedevo aiuto e lui immediatamente mi trovava il brano… penso che abbia migliaia e migliaia dischi di Jazz, perché qualsiasi disco che mi veniva in mente, il giorno dopo lui, zack, ce l’aveva e lo ritrovava subito, tra l’altro, che è un altro aspetto curioso perché anche io ho tanti dischi ma se uno mi chiede dov’è tal dei tali, è un casino a trovarlo mentre lui quella roba della catalogazione lì, ce l’aveva nel sangue e lo trovava subito…

*****

Intervista a Enrico Rava, tratta dal libro Philology Jazz Records, Storia di un'etichetta discografica di Macerata, nota in tutto il mondo


Brooklyn 1967, May 24th Tears for a Year Gone By

Credits:

 Label: Philology

Catalog#: W495

Format: CD

Country: Italy

Recorded in New York 1967, May 24th

Enrico Rava (trumpet)

Randy Kaye (drums)

Peter Lemer (piano)

Steve Tintweiss (bass)

Joel Peskin (tenor sax)




Tracklist:

CD ONE

#1 Apricot Lady – 13’52”

#2 Pretty Sweet – 15’43”

#3 Tears For A Year Gone By – 13’56”



CD TWO

#1 Laughter – 13’32”

#2 What Little Girls Are Made Of – 17’51”

#3 To Angel with Love – 9’41”






martedì 11 luglio 2023

Philology Jazz Records - the italian Specialist Labels

 


Sì, è vero, vengo sempre meno su queste mie vecchie pagine ma le passioni richiedono risorse e tempo, lo sapete, tutte cose che la quotidianità fagocita ad una velocità sempre più impressionante, ma ci sto lavorando…


Ma bando alle ciance e alle tristezze, torno volentieri per annunciarvi che da qualche giorno la Storia della Philology di Paolo Piangiarelli è finalmente disponibile in versione Kindle o cartacea sulla nota piattaforma.


«Perché faccio dischi?

Perché io amo il Jazz da più di cinquant’anni e, dopo centinaia di concerti e migliaia di dischi ascoltati, ad un certo momento mi sono stancato del ruolo passivo di ascoltatore. Avevo sempre più spesso idee di possibili incontri tra diverse sonorità o di progetti originali, desideravo approfondire i songbook di determinati autori e cercavo chi aveva il coraggio di sfidare le consuetudini dei soliti standards che, peraltro io amo…

Tutte cose che mi sarebbe piaciuto ascoltare su disco, ma quei dischi non esistevano, non si trovavano sul mercato ed allora ho deciso di farli io quelli che avrei voluto che altri facessero per me, ma non li facevano, quei dischi mancavano, insomma…»



Con queste parole Paolo Piangiarelli esordì nella prima intervista che realizzai nel 2008. Da quel momento mi fu subito chiaro il coraggio e la passione di Paolo, studioso e vorace amante del Jazz, ben prima che produttore per la sua etichetta discografica e continuai a raccogliere i suoi pensieri e le sue intenzioni, fino alla fine.


Questo libro racconta la storia della sua etichetta Philology, nata nel 1987 a Macerata e che negli anni ha prodotto circa 600 dischi "esclusivamente" di Jazz. Il libro si apre con un breve saggio sul panorama discografico degli anni 1968/1989, che sono quelli che videro il jazz italiano diventare maturo, e si chiude con l'intero catalogo Philology, che documenta i tanti dischi di Chet Baker, Phil Woods, Lee Konitz, Tony Scott, Massimo Urbani e Renato Sellani, tra gli altri.

Le interviste a Enrico Rava, Tiziana Ghiglioni, Franco D’Andrea, Enrico Pieranunzi, Paolo Fresu, Fabrizio Bosso, Stefano Bollani e Massimo Manzi, anche loro presenti nel catalogo Philology, contribuiscono a tratteggiare il profilo dell’uomo dietro al registratore.

Le foto di Carlo Pieroni e le riproduzioni a colori delle Copertine dei LP delle etichette indipendenti specializzate, come la DIRE Records, la HORO, la Black Saint/Soul Note, la RED Record e la Splasc(H) Records, rendono il volume qualcosa che ancora mancava nella discografia del jazz italiano, ed è solo l’inizio…



Enjoy it!

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Photos by Carlo Pieroni


sabato 13 maggio 2023

...a Pepito Pignatelli, batterista _ Mal Waldron Trio

Questo disco del ’66 è stato tra gli ultimi incisi dalla Karim (etichetta romana nata cinque anni prima e fallita qualche mese dopo). Stampato in pochissime copie, è uno dei rari LP in cui si può ascoltare Giuseppe «Pepito» Pignatelli alla batteria, meglio noto come animatore e sostenitore del jazz moderno romano, anche grazie alla gestione dei suoi club come il Blue Note (1970-1972) ed il mitico Music Inn (dal 1974). In realtà Pepito era molto altro...



Del Principe Pignatelli la cronaca tramanda più le personali e dolorose vicende che il suo profilo umano, artistico e culturale. Nessuna menzione al drumming dal feeling intenso di Pepito o al suo swing innato; troppo folklore intorno ai suoi veri sentimenti, pochissimi accenni al suo impegno produttivo da vero mecenate ma, in cambio, tanto tanto, tantissimo gossip pecoreccio. 


Per fortuna la mia memoria si forma di continuo e in maniera differente.


Un tempo come un gagliardo veliero
la prora fendendo,
marosi schiumanti di rabbia marina,
solcai tutti i mari.

Poi,
nel fare ritorno verso le mie coste,
a poca distanza dalla riva,
la chiglia si arenò,
sopra una secca.

Ogni giorno i flutti
delle onde che lambiscono
lo scafo oramai immobile,
lo corrodono lentamente,
con la salsedine che sopra vi s’incrosta.
Di notte l’alta marea mi sommerge,
e il giorno dopo, riappare il veliero,
sempre più bianco e azzurrino,
da confondersi con il riverbero del sole.
               
E dalla riva nessuno lo scorge.
Anche se io
scorgo la riva.

da Il Vascello Fantasma di Tano Festa


*****

Credits:

Label: Karim
Catalog#: KLP 14
Format: LP
Country: Italy
Recorded in Rome, 1966
May 30th and 31st


Mal Waldron (Piano),
Pepito Pignatelli (Drums),
Giovanni Tommaso (Bass)


Tracklist :


1) Steady Bread (Mal Waldron)
2) Blues For Picchi (Mal Waldron)
 3) Rosa (Mal Waldron)
4) Maroc (Mal Waldron)
5) For Bob (Mal Waldron)



1) Theme De Coureurs (Mal Waldron)
2) View From St. Luca (Mal Waldron)
3) Chim Chim Cheree (R.M. Sherman)
4) Dock Scene (Mal Waldron)
5) Speedy (Mal Waldron)





lunedì 13 marzo 2023

Chet Baker Live in Laren, Holland, August 7th, 1975


«Quando tornò a calcare “professionalmente” i primi palcoscenici, in seguito al famoso pestaggio, Chet Baker non era più sicuro di sé. Il jazz aveva cambiato direzione durante la sua assenza [...]

Come mai Chet non riuscì veramente a sfondare negli Stati Uniti dopo il suo rientro sulle scene? Si trovò nella terra di nessuno. Per gli appassionati e i musicisti di jazz più conservatori era troppo introverso e non aveva le qualità necessarie per il business dello spettacolo. Buona parte degli appassionati del jazz più progressivo, d’altra parte, non amavano il sound della sua tromba e il colore della sua pelle. Non c’è dubbio che Chet abbia sofferto, in parte, anche di una discriminazione razziale al contrario.» 



Questo racconta Jeroen De Valk nel suo testo “Chet Baker, Vita & Musica” (EDT/Siena Jazz 2022). Sono affermazioni forti ma non per questo poco veritiere, anzi. Scorrendo la storia del costume di quegli anni, gli stessi in cui Chet e Count Basie furono contestati anche sui palchi del “nostro” Umbria Jazz, vediamo che questi sono ottimi spunti per nuove valutazioni, almeno fino a quando Chet, il “barbone di alta classe”, non fece ritorno in Europa, dove tornò a raccogliere il suo successo a piene mani.


Partendo da questo, e attraversando molto altro, ne parleremo domani,  con Francesco Martinelli, presso l'Archivio Garzia di Roma, in 
Via dei conciatori, 1d ( Testaccio/Piramide). Maggiori Info e prenotazioni

Nel frattempo, godetevi un po' della sua musica.

Chet Baker Quintet & Sextet, Live at Larense Jazz Festival, Singer Concertzaal, Laren, The Netherlands, August 7, 1975




lunedì 26 dicembre 2022

La Vita è Bella, anche se un po' scalcinata!


Non so voi ma, come succede al povero George Bailey tutti gli anni (da più di settant’anni!!!), anche a me è capitato qualche volta di avere scoramenti che mi impedivano di vedere una possibile via di uscita e, di conseguenza, mi son ritrovato qualche volta a pensare (ma non così spesso come lui, povero...) se non sarebbe stato meglio non essere mai nato (soprattutto durante festività come queste) anche se, a differenza di George-tapino, non mi ha mai sfiorato l’idea del suicidio (almeno fino ad oggi). 

Quest’anno poi, proprio come per James/George, uguale-uguale, anche per me alla vigilia di Natale qualcuno mi ha inviato una specie di angelo (sì, quello di seconda classe lo so, ma forse è già tanto per uno come me) che mi ha in qualche modo mostrato che la vita è meravigliosa se riscaldata almeno un po’ dal fuoco della passione.


Tutto questo perché il mio Clarence (va beh, in realtà era un corriere UPS che ho visto solo di spalle, ma è pur sempre Natale e un po’ di romanticismo ci sta, no?) mi ha consegnato un qualcosa che mi ha mostrato come sia possibile superare le umane fragilità e che, ai miei occhi, si è mostrato subito come una delle cose più belle degli ultimi due anni!



Ovviamente una favola può durare 100’, 120’, anche 130 minuti o due giorni ma, come tutte le cose belle, prima o poi deve finire per far tornare alla ribalta le umane criticità, i limiti, le questioni irrisolte e le infinite alternative possibili, tutti quei fantasmi insomma che durante la storia se ne sono rimasti nascosti tra le quinte, in attesa della scritta FINE («ma pagato il debito cosa succederà a George e alla “Prestiti e mutui”? E se dovesse fallire, cosa succederebbe agli inquilini delle sue casette?» si chiede Raffaele Meale nella sua recensione al Film).


È bastata quindi una nuova sfogliata per notare alcune leggerezze, qualche scivolone, certe dimenticanze e diversi refusi nel mio testo.

L’aspetto grafico poi, diciamo che è un po’ naif… gabbia troppo ampia che spinge alcune foto e/o testi sui margini o fin dentro la rilegatura, una formattazione del testo che butta i grassetti e i corsivi un po' alla rinfusa, posizionamento arbitrario e didascalie sommarie delle foto; tutto in puro stile Philology, direi…


«Che cosa vuoi Mary? Puoi dirmelo. Vuoi la luna? Se la vuoi io la prenderò al laccio per te…» dice George a Mary in una delle sequenze forse più note e sicuramente tra le più smielate del film. 


Ma sì, perché in fondo la vita è bella pur senza dover essere una fiaba e, tantomeno, senza l’ossessiva ricerca della perfezione. 



Frank Capra, secondo me, questo lo sapeva bene e infatti non è un caso che l’angelo che ravvede il protagonista sia un figuro scalcinato, forse un po’ ritardato e addirittura senza ali, perché la sua forza sta proprio nella perfetta semplicità di una comunicativa impareggiabile e nella capacità di far vedere a George che, alla fine, saranno solo i suoi amici e i semplici abitanti di Bedford Falls che, raccogliendo la cifra necessaria, lo aiuteranno a risolvere in pratica i suoi problemi, senza bisogno d’interventi divini.


Ed è così che, per concludere questa natalizia metafora, il libro che oggi stringo tra le mani torna ad essere come una delle cose più belle dei miei ultimi due anni perché, con tutti i suoi difetti, è riuscito a “mettere in moto” tantissime persone intorno al tema, a creare relazioni inaspettate che hanno partecipato attivamente alla sua realizzazione e a dare forma, concreta e reale, ad un contemporaneo racconto di Natale, l'unico per me possibile. 



giovedì 22 dicembre 2022

Phil Woods + Franco Mondini Trio - EP JAZZ IN ITALY CETRA, 1960


È passato quasi un anno dal mio ultimo post…

Oramai questa “intro” è sempre più frequente su questo blog ma è innegabile che molte cose siano cambiate, un po’ per questo strambo momento che abbiamo vissuto tutti e che sembra ancora voler allungare i suoi tentacoli sulle nostre vite e un altro po’, invece, per una cosa bella e personale, l’aver portato finalmente a termine un lavoro a cui tenevo molto e che si è concretizzato proprio in questi giorni: un volume dedicato alla Philology di Paolo Piangiarelli, Jazz label che ancora non aveva ricevuto la giusta attenzione nel panorama delle etichette specialistiche del Jazz inciso in Italia.



È quindi per questo che il ritorno ideale su queste mie pagine non poteva che riprendere da qui, con quella figura che per Paolo fu l’innesco della sua incendiaria passione, un musicista a cui Piangiarelli ha dedicato, formalmente e idealmente, tutta la sua produzione, per chiudere in qualche modo un cerchio.



Potrei sbagliare ma prima del suo trasferimento a Parigi nel 1968, dove diede vita a quella che conosciamo come ERM - European Rhythm Machine, Phil Woods non era un volto noto in Europa eppure, approfittando dell’occasione offerta dalla venuta dell’Orchestra di Quincy Jones in Italia, che toccò le città di Roma, Milano, Torino e Genova nella primavera del 1960, ci fu chi ne percepì lo spessore, proprio come fece successivamente Piangiarelli, e gli propose su due piedi una seduta d’incisione.



Le cronache raccontano che fu Franco Mondini, noto batterista e agitatore del jazz torinese, durante l’intervallo del concerto della Big Band nella città della Mole, ad avvicinare il giovane sassofonista di Springfield, con una proposta semplice e diretta «Domani mattina abbiamo a disposizione uno studio di registrazione, ti piacerebbe essere dei nostri? Il compenso è di poche lire ma subito». Fu così che Phil Woods, con il bassista Buddy Catlett facente parte dello stesso organico di Quincy Jones, fu affiancato da Mondini stesso e Maurizio Lama al pianoforte per un’incisione per la mitica serie Cetra, ideata e curata da Piero Novelli e Nicola Cattedra.

Il risultato è tutto qui, racchiuso nelle due facce di questo piccolo EP, tre pezzi semplici e brevi per le concezioni odierne, ma non meno appassionati né sinceri.


All my best, cats!


JAZZ IN ITALY VOL.2


Label: CETRA

Catalog#: EPD 41

Format: EP


Recorded in Turin 1960, May 16


Phil Woods (alto sax)
Maurizio Lama (piano)
George “Buddy” Catlett (bass)
Franco Mondini (drums)



A1. Pentup House – 2’50”
A2. Little Girl Blue – 3’33”



B1. Blues d’Italie – 5’40”





sabato 19 febbraio 2022

Armando Trovajoli Orchestra _ The Beat Generation, 1960 _ New Upload _


Quella delle grandi orchestre, non è mai stata una vita facile, si sa. Il primo pensiero corre all’impegno economico necessario per tenere viva e a lungo una compagnia composta da una moltitudine di musicisti, ma anche il tema delle relazioni interne e delle conseguenti lotte intestine, meriterebbe tutta l’attenzione del caso.


Anche la conoscenza che abbiamo della storia delle grandi orchestre deve fare i conti con alcune difficoltà, la più evidente delle quali, in termini di critica musicale, è che non è semplice analizzare un’entità unica, ma talmente sfaccettata, usando gli stessi strumenti che solitamente tracciano il profilo di un singolo artista. Poi c’è l’aspetto discografico, che spesso si ricollega a quello economico e che, in alcuni casi ha lasciato in ombra diverse realtà presenti nel panorama.


Per assurdo, oggi abbiamo uno spaccato piuttosto nutrito delle orchestre antesignane del jazz italiano, grazie all’immane sforzo di Adriano Mazzoletti che ha raccontato in migliaia di pagine prima la storia della “Mirador’s Syncopated Orchestra” del pioniere Arturo Agazzi, della “Ambassador’s Syncopated Orchestra” del sassofonista Carlo Benzi, della “Louisiana Orchestra” del sassofonista Piero Rizza o della “Blue Star Orchestra” del violinista Pippo Barzizza, ma anche della “Savoy Orchestra” del pianista Rodolfo Del Lago e della “Escobar Orchestra” del pianista Amedeo Escobar.


La ricerca di Mazzoletti, è dettagliata anche per gli anni Trenta,  dove vengono raccontate le gesta della “Orchestra Jazz Columbia” diretta dal violinista Edoardo De Risi o della “Orchestra Italiana” del violinista Armando Di Piramo, attive soprattutto in campo discografico e radiofonico, ma la loro attività non fu mai veramente costante, né le esecuzioni prettamente jazz numerose.


L’Adriano del jazz nazionale, racconta che fu solo quando la radio decise di investire su questo tipo di formazione per le proprie programmazioni che si poterono tenere insieme per periodi un po’ più lunghi le orchestre. Inizialmente nacque la “Radio Orchestra Milano”, diretta dal 1933 da Tito Petralia, impiegata oltreché per le trasmissioni radiofoniche, per incidere dischi per la Parlophon. In questa orchestra, composta inizialmente da quindici elementi, militavano due violinisti che furono anche i padri di due future stelle del jazz moderno: Igino Masetti e Agostino Valdambrini.


Qualche anno dopo l’EIAR, che poi diventò RAI nel 1944 e che prima utilizzava orchestre riprese in diretta dalle varie sale da ballo per le sue trasmissioni, per rispondere al bisogno di modernità costituì a Torino nel 1935 la “Orchestra Cetra”, diretta inizialmente dal pianista inglese Claude Bampton che, nell’ottobre 1936, fu sostituito da Pippo Barzizza. Questa Orchestra rimase in attività per venticinque anni e la prima formazione, che rimase unita fino al 1942 sotto la direzione di Barzizza, fu la migliore grande formazione italiana in grado d’esprimersi in un linguaggio jazzistico, almeno fino alla seconda guerra mondiale.


Fin da subito, come nelle migliori storie di cappa e spada, l’Orchestra Barzizza ebbe un rivale nato proprio in seno alla stessa EIAR: l’Orchestra Angelini, diretta dal Maestro Angelo Cinico, meglio noto come Cinico Angelini. Nonostante l’impostazione più commerciale di questa compagine, c’è da dire che Angelini impiegò tra le sue fila validissimi musicisti come Michele Ortuso e Calcedonio “Nello” Digeronimo.


Come dicevo all’inizio, grazie alle tante informazioni oggi reperibili, potrei continuare ancora a parlare delle orchestre anteguerra, citando ad esempio l’Orchestra diretta da Carlo Zeme, che iniziò a trasmettere nel 1939 e che vedeva tra i suoi musicisti un giovanissimo Oscar Valdambrini, Glauco Masetti e Mario Midana, o l’Orchestra di Piero Rizza a Radio Roma, attiva dal 1943, dove si evidenziarono Armando Trovajoli e Nunzio Rotondo o, ancora, l’Orchestra di Ritmi Moderni diretta da Francesco Ferrari, attiva per dieci anni consecutivi, sin dal 1944. Potrei, ma c’è già tanto tra le righe della storia, ed io pensavo di raccontare qualcosa d’altro.


Sì, perché è sempre curioso notare come alcuni avvenimenti della Storia del jazz si possano ricordare fin nel più minimo dettaglio ed altri, viceversa, si siano praticamente smarriti nell’oblio, o quasi. Ad esempio, dall’aprile del 1979 al maggio 1980, la Big Band della RAI, nella quale figuravano Nino Culasso, Baldo Maestri, Cicci Santucci, Gianni Oddi, Dino Piana, Carlo Metallo, Sal Genovese, Maurizio Majorana o Roberto Zappulla, giusto per citarne alcuni, diede diversi concerti a Roma ed a Venezia, voluti da Pasquale Santoli, con delle special guest di tutto rispetto alla direction.


Avete letto bene: Steve Lacy, Albert Mangelsdorff, Alexander Von Schlippenbach, Gil Evans, Archie Shepp, Roswell Rudd, Chris Mc Gregor, Barry Guy, Mike Westbrook, Willem Breuker, Misha Mengelberg, George Russell. Concerti memorabili, team stratosferici eppure pochi ricordi, nessuna incisione ufficiale, se non quella della FMP Records (SAJ 31) dedicata alla direction di Alexander Von Schlippenbach e queste serate si sarebbero dissolte nel tempo se non ci fosse stata la dedizione dei compagni del mitico Inconstant Sol a tenere viva la memoria.


Un'altra orchestra di cui si conosce praticamente pochissimo è quella a cui ho dedicato questo post che, se si esclude il coraggioso ma breve esperimento dell’Orchestra 013 di Piero Piccioni, è la prima Orchestra squisitamente Jazz istituita dalla RAI nel dopoguerra, cioè quando il jazz italiano divenne moderno.


L’Orchestra di Armando Trovajoli, voluta da Giulio Razzi, nacque nell’ottobre del 1956, sulle ceneri dell’orchestra che fino all’estate di quell’anno fu diretta da Cinico Angelini. Pierluigi Catalano, in un articolo del ’56 intitolato “L’Esperimento Trovajoli” diceva che «certamente le ragioni non ultime di questo avvenimento vanno ricercate nel fiasco, al Festival Internazionale di Venezia, delle nostre canzoni in diretto confronto con la produzione leggera delle altre nazioni europee. Chiarissima è apparsa a tutti la necessità di sbloccare una situazione che, con il pretesto della difesa della tradizione della Canzone italiana, si concretava in un costante, ingiustificato ricorso a formulette musicali trite e risapute che, a prescindere da ogni questione di gusto e di validità artistica, risultavano alla prova dei fatti, assolutamente superate.»


Trovajoli aveva già avuto un notevole successo in radio quando, nel ’50, condusse la trasmissione “Musica per i Vostri Sogni”. Successivamente formò e diresse l’Orchestra Eclipse, con la quale fu tanto applaudito anche al III° Festival della Canzone di San Remo, ma questa orchestra era tutta un’altra cosa. L’Orchestra jazz di Trovajoli apparve come un fatto nuovo ed interessante nel campo dei programmi radiofonici e televisivi italiani e, scorrendo i nomi dei musicisti, si può facilmente intuire il perché. 


Nella prima versione dell’Orchestra, la sezione delle trombe era composta da: Oscar Valdambrini, Sergio Fanni, Giovanni D’Ovidio e Gino Orsatti. Ai tromboni c’erano: Giacomo Polverino, Palmiro Mautino e Ennio Gabbi. Alle ance: Gianni Basso, Mario Di Cunzolo, Sergio Valenti, Sergio Rigon e Gino Marinacci, oltre a Berto Pisano al contrabbasso, Roberto Zappulla alla batteria ed il leader al pianoforte. Oltre a questo vasto zoccolo duro d’impianto jazz, Trovajoli aggiunse una sezione d’archi, un corno, un flauto ed un oboe per costituire un organico orchestrale che gli permetterà di operare in un vastissimo campo musicale, utilizzando anche gli arrangiamenti di Giampiero Boneschi, Franco Pisano o Zeno Vukelich.


Con questa formazione Trovajoli iniziò così a trasmettere sul Programma Nazionale, a partire dal 14 ottobre 1956, quelli che saranno chiamati i Concerti Jazz. «Quelle prime trasmissioni domenicali duravano solo quindici minuti, ma le registrazioni, effettuate ogni sabato pomeriggio precedente la messa in onda, avevano la durata di un vero e proprio concerto e la presenza di un pubblico conferiva a quegli eventi registrati in studio le caratteristiche tipiche di un live» dice Mazzoletti. «Nei concerti, oltre alle esecuzioni per l’intera orchestra, venivano presentati brani eseguiti da piccoli complessi, come il trio di Trovajoli, il neonato Quintetto Basso-Valdambrini o il Quintetto di Gil Cuppini, con Sergio Fanni alla tromba» continua il critico nel suo “Il Jazz in Italia”


Nel tempo, diversi furono gli aggiustamenti d’organico effettuati dal Maestro Trovajoli: per primi le sostituzioni di Nini Rosso, al posto di D’Ovidio e di Gil Cuppini, che rilevò Zappulla. Successivamente entrarono Nino Culasso, Beppe Cuccaro, Attilio Donadio ed Enzo Grillini, oltre a Sergio Conti che rimpiazzò Cuppini. Per ultimo si aggiunsero Baldo Panfili, Bill Gilmore, Livio Cervellieri e Franco Pisano.


Nonostante questo continuo fine-tuning, l’orchestra stette insieme per oltre quattro anni, anche grazie all’ingegno di Trovajoli che, per tenere unita la sua Big Band durante l’estate del ‘57, accettò un ingaggio alla “Capannina” di Forte dei Marmi, con la voce aggiunta di Miranda Martino, che vocalizzava senza parole. Il repertorio della stagione estiva era ovviamente più popular, e l’ascolto lascia immaginare un’atmosfera satura di romanticismo ed uno stuolo di signore estasiate.


È curioso notare che il primo documento sonoro di quella eccezionale orchestra jazz, fu registrato dalla RCA solo due anni dopo la sua data di formazione, nel giugno del ’58, con il titolo “Magic Moments at La Capannina”, che lascia intendere una registrazione dal vivo presso il locale per eccellenza della Versilia negli anni Sessanta. «La storia di quel disco, in effetti, è curiosa» dice Trovajoli a Maurizio Becker nel libro “C’era una volta la RCA”. «per quel disco registrai a Roma una serie di brani da utilizzare durante le pause dell’orchestra, diciamo delle basi sulle quali io avrei suonato il piano per far ballare la sala mentre la Big Band riposava. Erano pezzi alla moda arrangiati con archi ed un esperimento con la voce femminile di Miranda: la cosa funzionò benissimo e il Magic Moment diventò l’evento dell’estate». Infatti l’ingaggio a La Capannina di Franceschi proseguì anche per l’anno successivo.


Nonostante l'oggettivo successo di questo live in playback, il batterista Sergio Conti riporta un ricordo leggermente diverso a Mazzoletti: «fu un’estate tragicomica. L’orchestra iniziava a suonare alle nove e andava avanti fino alle tre del mattino. Il repertorio era insufficiente. Oltretutto Armando non arrivava mai prima dell’una, una e mezza, sempre vestito di bianco, elegantissimo, quando noi avevamo già suonato tutto quello che era possibile suonare. Era stato ingaggiato il pianista Vittorio Buffoli, che sostituiva Armando nella prima parte, anche se, quando arrivava, al massimo suonava tre o quattro pezzi. L’orchestra, che esauriva presto il repertorio, era impegnata soprattutto ad ordinare consumazioni al bar, mentre Buffoli, Berto Pisano ed io, non smettevamo mai di suonare. A Berto, alle tre del mattino, usciva il sangue dalle dita.»


«I piemontesi erano fantastici» prosegue Sergio Conti «Valdambrini beveva solo champagne d’annata, Sergio Valenti, Attilio Donadio e Gianni Basso vini pregiati. Mario Midana era sempre occupato a fare le liste delle ordinazioni: gelati flambé, liquori di marca… non suonava mai. Tanto che una sera Franceschi, il proprietario della Capannina, venne da noi e disse “ragazzi, vi pago bene, ma il conto al bar supera di gran lunga il vostro cachet, come la mettiamo?” ma la cosa non finì lì. I piemontesi erano soliti prendere in giro Armando perché arrivava tardi, suonava poco e tutto sommato non si interessava granché all’orchestra. Una sera, stanco della situazione, ci riunì e senza tanti complimenti licenziò su due piedi Valdambrini, Basso, Donadio e Valenti, che vennero temporaneamente sostituiti da Sergio Fanni, Leandro Prete, Santino Tedone e Livio Cervellieri.»


Nell’autunno del ’58 i Concerti Jazz furono rinviati e l’orchestra fu diretta a turno oltreché da Trovajoli, anche da Kramer, Luttazzi e Franco Pisano. Poi, nel gennaio 1959, i piemontesi rientrarono e l’orchestra di Trovajoli, nella sua formazione migliore, continuò fino a tutto il 1960.


Di quei quattro anni straordinari per il Trovajoli in jazz, Mazzoletti riporta in calce una marea d’incisioni, molte inedite e diverse note, ma tutte in quartetto, quintetto e sestetto, come quelle pubblicate sotto il titolo “Trovajoli Jazz Piano” e “Softly”, sempre dalla RCA. Solo un album abbozza un ritratto dell’Orchestra, il mitico “The Beat Generation” che, come tante storie di questa Storia, ha avuto una gestazione particolare.


L’album fu registrato a Roma nel 1960, cioè due anni dopo il grande successo del ’58 della migliore formazione dell’Orchestra Trovajoli e fu pubblicato ancora due anni dopo la registrazione, cioè solo nel 1962, quando l’orchestra era praticamente sciolta da tempo e, forse, dimenticata. Lo schieramento registrato dalla RCA comprendeva Oscar Valdambrini, Nini Rosso, Nino Culasso, Beppe Cuccaro e Baldo Panfili alle trombe. Bill Gilmore e Dino Piana ai tromboni a pistoni. Mario Midana, Ennio Gabbi, Enzo Forte e Mario Pezzotta ai tromboni. Attilio Donadio, Sergio Valenti e Livio Cervellieri ai sax alti e clarinetti. Gianni Basso, Marcello Cianfanelli e William Hawthorne ai sax tenori. Gino Marinacci al sax baritono e flauto. Enzo Grillini e Franco Pisano alle chitarre elettriche. Berto Pisano al contrabbasso, Jimmy Pratt e Sergio Conti alla batteria e Armando Trovajoli al pianoforte. Gli arrangiamenti furono curati da Bill Russo, Bill Holman, Bill Smith.


Il Maestro, sempre a colloquio con Maurizio Becker nel libro citato, così ricorda quel disco: «in quel periodo avevo una magnifica orchestra scritturata dalla RAI per un programma di jazz. Ne approfittai per incidere quel disco che porta il titolo di una composizione di Bill Holman. Purtroppo però quell’album fu inciso male, con troppe limitazioni tecniche. Sono stati pubblicati solo una decina di pezzi, ne sacrificammo molti altri che forse erano superiori. Purtroppo quel materiale è andato perduto e ancora oggi rimpiango di non aver inserito una versione di Laura firmata da Zeno Vukelich, il miglior arrangiatore che io abbia mai incontrato»


Ora, a parte l’imperscrutabilità dei piani delle case discografiche ed i rimpianti naturali dell’artista, che vede in quello non ancora pubblicato l’aspetto migliore del suo lavoro, la musica incisa in The Beat Generation resta una delle più significative opere di un’orchestra italiana, principe del cosiddetto jazz moderno, ed il documento vinilico, mai ristampato in CD, è uno dei dischi di jazz italiano più rari da trovare in circolazione.

Enjoy it!

NdC:
- Art by Mimmo Rotella
- le foto delle orchestre sono tratte dal libro “L’Italia del Jazz” di Mazzoletti, edito da Stefano Mastruzzi


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Credits:

The Beat Generation

Label: RCA Victor
Catalog#: PML 10300
Format: LP
Country: Italy
Recorded: 1960, Rome

 .

Oscar Valdambrini, Nini Rosso, Nino Culasso, Beppe Cuccaro, Baldo Panfili (trumpet),
Bill Gilmore, Dino Piana (trnp),
Mario Midana, Ennio Gabbi, Enzo Forte, Mario Pezzotta (trn),
Attilio Donadio, Sergio Valenti, Livio Cervellieri (alto sax, cl),
Gianni Basso, Marcello Cianfanelli, William Hawthorne (tenor sax),
Gino Marinacci (bariton sax, fl),
Enzo Grillini, Franco Pisano (el. g),
Berto Pisano (bass),
Jimmy Pratt, Sergio Conti (drums),
Armando Trovajoli (dir., arr., piano)
 .


Tracklist:


1) The Beat Generation (arr. B. Holman)
2) Why Not (arr. B. Smith)
3) Blues (arr. B. Russo)
4) O.K. (arr. B. Smith)
5) O.B. Street Blues (arr. A. Trovajoli)
 .



1) So Long (arr. B. Smith)
2) The Daffodil’s Smile (arr. B. Russo)
3) Bonjour Tristano (arr. Valdambrini - Niccoli)
4) Love Is (arr. B. Smith)
5) The Stretch (arr. B. Holman)